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C’È DEL PIANTO IN QUESTE LACRIME

drammaturgia Antonio Latella e Linda Dalisi
regia Antonio Latella
con Valentina Acca (Gelsomina), Leandro Amato (Gennaro), Michele Andrei (Vincenzo), Alessandra Borgia (Assunta), Michelangelo Dalisi (Amalia), Francesca De Nicolais (Maria), Lino Musella (Alfonso), Candida Nieri (Olimpia), Paola Senatore (Zezè), Emilio Vacca (Assuntella/Giannino), Francesco Villano (Salvatore)
scene e costumi Simone Mannino, Simona D’Amico
luci Simone De Angelis
musiche Franco Visioli
movimenti Francesco Manetti
assistente alla regia Francesca Giolivo
direttore di scena Marcello Iale
assistente e realizzazione scene Marco Di Napoli
assistente ai costumi Graziella Pepe
fonica Diego Iacuz
costruzione elementi scenografici Fabio Bondì, Francesco Santoro
collaboratori alla costruzione Daniela Franzella, Cristina Esposito, Giuseppe Grippi
calzature Trippen (A. Spieth, M. Oehler – Berlin)
organizzazione e foto di scena Brunella Giolivo
produzione Fondazione Campania dei Festival Napoli Teatro Festival Italia
in coproduzione con Teatro Stabile di Napoli
in collaborazione con stabilemobile compagnia Antonio Latella

Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2013 – Miglior Scenografo e Miglior Costumista
 
Il regista Antonio Latella rilegge la sceneggiata napoletana trasformandone i personaggi in insetti e parassiti che si muovono in uno spazio claustrofobico, come automi privi di identità. Il regista, insieme alla drammaturga Linda Dalisi, viviseziona le dinamiche familiari tipiche della sceneggiata dando vita a una favola nera, a un incubo kafkiano dove la speranza è un traguardo irraggiungibile: resta la volgarità di una lingua degradata (il napoletano), ridotta a gergo, depauperata della sua ricchezza espressiva, espropriata della sua proverbiale musicalità. Un urlo, un guaito, un rantolo che trasforma la tradizione in un presepe di gesso atroce e immutabile.
 
NOTE 

“C’è del pianto in queste lacrime ci offre l’occasione di un confronto diretto con la nostra tradizione e con le nostre radici. Ma in che modo il genere della sceneggiata è parte delle nostre radici? Se la sceneggiata è un genere considerato morto, sicuramente non è nostra intenzione resuscitarlo né nobilitarlo. L’intenzione è piuttosto quella di analizzare dall’interno qualcosa che è nel nostro DNA. Difficile parlare del perché della scomparsa di un genere, quando questo ci risulta come un artificio, un essere generato non da un padre e una madre, ma da una sorta di innesto. In questa nostra sceneggiata i personaggi si aggirano e vivono in una ferita, sono come il virus all’interno di una piaga. In questo marcio (evocato dal titolo amletico) tutti sono costretti a ripercorrere in modo quasi autistico quello che altri hanno deciso per loro, per questo è come se non avessero una coscienza. Tutti sono delle macchine ridotte al non pensiero, o meglio sottratti alla possibilità di un pensiero infinito, e per questo sono mostri e non lo sanno. È come se ci trovassimo non alle radici di qualcosa, ma nel mondo ad esse sotterraneo. Come in una profondità della terra, piena di vermi, insetti e parassiti senza anima. In questo senso i personaggi non sono personaggi, ma automi, macchine senza epoca, che agiscono, vivono, parlano per quello che rappresentano e non per quello che sono, senza una verità individuale, senza libertà. In questi meravigliosi pupazzi senza sangue tutti apparentemente buoni e positivi, è presto svelata una mostruosità agghiacciante: quella dell’omertà, del sopruso, della fame, della vanità, della stupidità, della violenza, della vergogna. All’interno del corpo della sceneggiata gli organi si muovono stretti come in un formicaio, inquieti e ossessionati, alla ricerca di una risposta a quella disfunzione che, già si sa, o si intuisce, porterà all’estinzione. Come se all’interno di una famiglia fosse già entrato il virus che l’annienterà. Napoli piange la sua malattia attraverso la ripetizione e la reiterazione di atti e parole svuotati dalla loro radice, mentre da quel corpo nascosto entrano ed escono le cose solo se portate dallo scorrere continuo di un irreale paniere, simbolo dell’identità, della storia, della famiglia (o della creatura) che ne governa la discesa o la salita. Il ricordo degli eventi passati diventa presagio della fine, paradosso di una città che ritorna sempre sui propri errori ed orrori. Quello che è già accaduto si ripete, si trasforma, rimbomba nell’aria. I rapporti sociali e familiari si distorcono e vengono espressi con una lingua sempre più violenta. Sale un pianto coatto e disperato, un lamento marcito nel tempo”. Antonio Latella e Linda Dalisi

ESTRATTI DI RASSEGNA STAMPA

«[…] Insomma, questo spettacolo – davvero formidabile – è un viaggio nell’inferNapoli con l’occhio rivolto a “Isso, Essa e ‘o Malamente”. […] Altrettanto formidabili, infine, risultano gli attori della Compagnia Stabile/Mobile di Latella. C’è del genio in queste prove». Enrico Fiore, Il Mattino, 30/09/2012

«[…] E a dare un taglio al passato è la neo-compagine indipendente Stabile/Mobile di Latella, cui ha fornito un trampolino il Festival. L’impresa è davvero cospicua, il testo è ben missato e disincantato, gli undici attori sono un ensemble che pur agendo in modo non ortodosso riceve un fiume d’applausi (napoletani). E Latella, reduce da unTram esemplare, pronto a (ri)dirigere a Mosca attori siberiani in Oreste – Elettra Ifigenia, qui in perfetta intesa con scene e costumi di Mannino – D’Amico, musiche di Visioli e luci di De Angelis, può davvero far conto sui talenti dei vari Amato, Andrei, Borgia, Carpio, Dalisi, De Nicolais, Musella, Nieri, i due Vacca, Villano». Rodolfo Di Giammarco,la Repubblica, 7/10/2012

«Del testo, elaborato da Linda Dalisi in un dialetto basso, plebeo, non si capisce una parola, ma si coglie tutto, perché investe la platea con una violenza devastante […] Anche stavolta Latella ottiene un prodigioso risultato: smonta, svuota la struttura della sceneggiata e alla fine, all’improvviso, la ricompone per un attimo in tutta la sua forza emotiva». Renato Palazzi, Il Sole 24 Ore, 7/10/2012

«Come un entomologo Antonio Latella scruta studia stuzzica (quasi sotto forma di insetti, larve, vermi) i suoi oggetti d’indagine, vale a dire i reperti venerandi di una tradizione iper-napoletana, qual è eventualmente la sceneggiata (ma non solo)». Pasquale Bellini, La Gazzetta del Mezzogiorno, 1/10/2012

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