I MANOSCRITTI DEL DILUVIO
di Michel Marc Bouchard*
traduzione Barbara Nativi
regia Carlo Cerciello
con Walter Cerrotta, Michele Nani, Danilo Nigrelli, Franca Penone, Bruna Rossi, Maria Angeles Torres
scene Roberto Crea costumi Daniela Ciancio luci Cesare Accetta musiche Paolo Coletta suono G.U.P. Alcaro
aiuto regia Aniello Mallardo assistente alla regia Cecilia Lupoli assistente alle scene Michele Gigi assistente ai costumi Arianna Pioppi direttore di scena Teresa Cibelli datore luci Pasquale Piccolo macchinista Nicola Grimaudo
fonici Paolo Vitale, Daniele Piscitelli sarta Roberta Mattera
trucco Vincenzo Cucchiara
foto di scena Marco Ghidelli
realizzazione scena F.lli Giustiniani realizzazione costumi Farani
materiale elettrico Emmedue
materiale audio Opera 26
parrucche Rp Studio, si ringrazia Aldo Signoretti trasporti Autotrasporti Criscuolo
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
*Michel Marc Bouchard è rappresentato in Italia da Agence Althéa / éditions Théâtrales, Parigi
Durata: 1 ora e 30 minuti (atto unico)
Il testo I manoscritti del diluvio di Bouchard denuncia con poetica e malinconica consapevolezza il disarmante e crudo disagio senile dinanzi alla propria immagine riflessa, quando i desideri, la voglia di vivere, amare, condividere e progettare ancora, sono intrappolati dentro un corpo in disfacimento.
Un’alluvione, un gruppo di anziani intenti a ricostruire i relitti di una memoria collettiva che le giovani generazioni vogliono ignorare. Ciascuno di essi si assume la responsabilità di ricordare e, dunque, riscrivere a mano, in parte o per intero, i libri distrutti dall’acqua nella biblioteca durante il disastro. “Siamo noi stessi superstiti di un recente diluvio, scrive il regista nelle sue note, un diluvio che ha messo, purtroppo, in evidenza i buchi neri sociali ed etici di questa società dell’apparenza, dove il valore della vita umana corrisponde esclusivamente alla sua capacità di produrre. La cinica considerazione degli anziani durante questa pandemia, ne è certamente un tragico indicatore.
Gli anziani, più comunemente definiti in senso dispregiativo “vecchi”, sono ai margini di questa giovanilistica società dell’apparenza; politicamente rappresentano il peso scomodo e improduttivo della memoria di sé, dinanzi all’avanzare strumentale di quel revisionismo storico che è, invece, l’arte machiavellica della confusione e della mistificazione.
Dei “vecchi” fanno comodo le pensioni che, risolvendo i problemi economici di tante famiglie, sopperiscono ai vuoti dello stato sociale, ma il tesoro della terza età in termini di vissuto, l’esperienza degli anziani, quella, cioè, che un tempo li rendeva preziosi e saggi, oggi sembra non avere più senso.