Ospitalità
23 – 28 gennaio 2007 | Sala Mercadante
Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Stabile di Torino in collaborazione con il Théâtre National Populaire TNP Villeurbanne – Lyon
Le lacrime amare di Petra Von Kant
di Rainer Werner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Antonio Latella
con Laura Marinoni, Silvia Ajelli, Cinzia Spanò, Sabrina Jorio, Stefania Troise, Barbara Schröer
e gli animatori d’ombre Massimo Arbarello e Sebastiano Di Bella
scene e costumi Annelisa Zaccheria
Per raccontarci la donna Fassbinder sente la necessità di chiuderla nella sua casa, quasi come se isolandola riuscisse ad evidenziarne tutti i suoi lati, compreso il virus che l’ha contagiata. La donna diventa nell’immaginario fassbinderiano una proiezione, un ideale, un’icona, una gigantografia, una mappa dei sentimenti. Il suo corpo diventa la casa da abitare, esplorare, invadere, conquistare, dominare, governare……tentativi inutili, perché la donna di Fassbinder resta unica e inafferrabile, anche per la donna stessa. La donna non può essere posseduta ma solo amata, totalmente, senza mezze misure. Amore assoluto, mortale. Una donna è la sua casa. L’ossessione di un ruolo, un posto, un luogo nel mondo. Quattro pareti di un interno borghese. Ghiaccio. Petra non varca mai la soglia, resta confinata nel suo isolamento, quasi come se fosse impossibilitata a muoversi. La sua casa è il suo tutto (ufficio-laboratorio-confessionale-atelier-album di famiglia-riposo-gioco-tomba-fossa comune dei sentimenti). Nessuna emozione forte, la passione manipola i comportamenti umani, tutto deve essere filtrato dalla testa; chi si lascia andare alle passioni è debole agli occhi della società. Tutto diventa rappresentazione. Ripetizione di regole, forme, di una partitura dalle forti tinte borghesi. Tutto è prevedibile, riconoscibile, ancor prima dell’essere detto o fatto. Come dice Fassbinder: “non esistono vicende vere. Il vero è artificio”. Per rompere l’alienante corteo funebre di una inevitabile morte quotidiana, Fassbinder introduce nella cella della regina madre un elemento sconosciuto, non ‘infetto’ e per questo senza regole, pronto a tutto per conquistarsi un ruolo. Il nuovo attrae e paralizza, ci destabilizza, ma ci costringe ad agire, ad uscire (non fuori dalle mura, ma fuori da noi stessi) per rimettere l’amore in corpo e tornare ad essere protagonisti del proprio sogno d’amore; il nuovo è l’ossigeno necessario per andare oltre le pareti di una casa, oltre l’asfalto di una strada più volte percorsa. E così Petra si getta senza pensarci nelle braccia del vuoto (KARIN) per inseguire o, forse come Fassbinder, per ripercorrere con tanta disperata ostinazione quell’utopia probabilmente infantile e impudente che si chiama (AMORE). Nei fiumi dell’alcool finalmente la parola trova sangue, riacquista il suo valore arcaico e il non detto può finalmente essere ripetuto, urlato senza alcun pudore: “Ti amo. Ti amo. Ti amo”. Stillicidio che ripercuote la stessa pelle di un corpo vuoto per recuperarne il senso, riempirne il suono. La parola ritrova l’utero, la pancia, la casa. Le quattro pareti diventano il manifesto “IL NON AVERE UTOPIE È UN’UTOPIA”; diventano un luogo metaforico; uno spazio mentale che rende concreta l’illusione, anzi la ingigantisce, ne fa quasi un mostro che fagocita il reale, rendendolo ombra priva di corpo; proiezione di una vita. Le pareti diventano la placenta di un luogo primordiale, quasi onirico, dove tutto è possibile, dove non si ha più nessuna remora a seguire un impulso, dove le parole sono fili di un tessuto prezioso, si tendono, si intrecciano per tessere una trama, una ragnatela, dove la vittima si fa carnefice e il carnefice si fa vittima di se stessa. La forma perde la cortesia e diventa ostentata istallazione di un sentire primordiale, la parola torna ad essere femmina, liberandosi definitivamente della sua terroristica ‘oppressione’. In questa sovraesposizione, in questo gioco di violenti luci e ombre, il testo taglia nettamente le appendici che lo datano, e recupera il suo valore tragico, il suo essere tragedia moderna, il suo essere melodramma. I corpi perdono i costumi, i ruoli e si rivestono di intimo. Il privato diventa la pelle in cui ritrovarsi ed imparare ad accettare la maschera della propria tragica esistenza. Così le lacrime si fanno simbolo, sintesi artistica, dell’ amarezza del vivere.
Antonio Latella