Ospitalità

10 – 21 gennaio 2007 | Sala Mercadante

Nuova Scena – Arena del Sole – Teatro Stabile di Bologna – Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Mittelfest 2006
Le storie del signor Keuner
di Bertolt Brecht
traduzione Roberto Menin
uno spettacolo di Roberto Andò e Moni Ovadia
scene Gianni Carluccio
luci Gigi Saccomandi
costumi Elisa Savi
suono Mauro Pagiaro
coordinamento musicale Emilio Vallorani
con Moni Ovadia, Lee Colbert, Roman Sivulak, Maxim Shamkov, Ivo Bucciarelli e la Moni Ovadia Stage Orchestra: Luca Garlaschelli (contrabbasso), Janos Hasur (violino), Massimo Marcer (trombe), Albert Mihai (fisarmonica), Vincenzo Pasquariello (pianoforte), Paolo Rocca (clarinetto), Marian Ŝerban (cymbalon), Emilio Vallorani (flauti/percussioni)
foto Raffalla Cavalieri (Iguana Press)

Il signor Keuner è l’alter ego del Brecht esule. L’esilio di Keuner è duplice come quello che visse realmente Brecht. Esiliato perché oppositore eccellente del regime nazista. Il grande drammaturgo fu privato di uno status di certezza legato anche ad alcune condizioni materiali:” essi non mi hanno solamente sottratto la mia casa, il mio vivaio di pesci e la mia auto, mi hanno anche rubato il mio teatro e il mio pubblico”. Da ultimo fu gettato nell’alea di un’esistenza incerta e smarrita, propria di tutti gli esuli. È l’esilio in cui Brecht, come ricorda in una memorabile lirica, portava con sé:” un mattone, per mostrare com’era una volta la propria casa”. L’altro esilio Brecht lo visse quando rientrò nella sua Berlino, la Berlino dove si era instaurato il comunismo che lui aveva tanto auspicato. Dovette essere lancinante la delusione nello scoprire che proprio quando veniva restituito al proprio teatro e al suo amato pubblico, il povero B. B. sarebbe caduto nel più difficile degli esili, quello che si vive presso di sé. Il comunismo in cui si trovava a vivere non era il mondo luminoso del comunismo di cui aveva decantato la ragione del:”semplice difficile da farsi”, bensì un sistema di potere autoreferenziale che rivelò presto la sua natura ottusa. Quando a seguito della rivolta operaia di Berlino del 1953 il Partito comunista della DDR dichiarò di essere deluso da quella reazione popolare, Brecht scrisse che visto che il partito era deluso dal popolo sarebbe stato necessario procedere a sciogliere quel popolo e ad eleggerne un altro. Keuner è in qualche misura un Brecht esiliato anche dalle proprie certezze che da istruzioni per l’uso per riuscire a galleggiare in un’epoca in cui avanza la perdita del senso. Per questa ragione qualche critico ha notato tentazioni di sconfinamento del K di Bertold Brecht nei territori del K di Franz Kafka. E non solo nella forma breve e di parabola del racconto. In questo orizzonte di esilio dal senso, le istruzioni di Keuner sono più che attuali per noi che nella svolta del millennio quel senso lo abbiamo perduto e galleggiamo in una continua deriva senza morale di cui non si vede più la sorgente e di cui non appare ancora la foce. Keuner ci ha sollecitati a una mise en scene in forma di esposizione di reperti “d’arte”, alla maniera scomposta di certe esposizioni del nostro tempo dominato dalla virtualità, in cui i frammenti di realtà sono in un esilio senza speranza. In questo consiste la lancinante bellezza del fare artistico nel nostro tempo, l’essere paradossalmente un disperato tentativo della realtà emozionale di non sparire nel buco nero della virtualità. In un’istallazione visuale compaiono le dramatis personae dell’oggi nel ruolo di loro stesse, interpretano le parole di Keuner nel vano sforzo di trovare almeno un’eco di autolegittimazione morale. I reperti di realtà a cui ci aggrappiamo nel nostro esilio sono: un’orchestrina sotto mentite spoglie, una cantante brechtiana, un mafioso russo appassionato d’arte, un attore manichino kantoriano, orfano del proprio teatro e costretto a ripetere una memoria del proprio essere frammento di un’opera d’arte irripetibile, un custode vetusto di un museo dell’arte socialista sopravissuto al crollo e, da ultimo, un curatore di mostre artistoide e intellettualoide, cultore dell’ebraismo kafkiano che cerca di conferire un senso impossibile all’esposizione che è chiamato a organizzare e il cui unico esito è inesorabilmente post-morale.