13/06/2024
ore 21:00
14/06/2024
ore 21:00
15/06/2024
ore 21:00

ODISSEA CANCELLATA
di Emilio Isgrò
regia Giorgio Sangati
con Luciano Roman
e Clara Bocchino, Francesca Cercola, Eleonora Fardella, Francesca Fedeli, Gianluigi Montagnaro, Antonio Turco
installazione scenica Emilio Isgrò
progettazione scenica Claudio Lucchesi Studio ufo
costumi Eleonora Rossi
disegno luci Luigi Biondi
musiche Giovanni Frison
cura del movimento Norman Quaglierini
aiuto regia Angela Carrano
assistente regia volontario Gianluca Bonagura
direttrice di scena Flavia Francioso
macchinista Nicola Grimaudo
datore luci Giuseppe Di Lorenzo
fonico Daniele Piscicelli
sarta Roberta Mattera
foto di scena Ivan Nocera
costumi realizzati da Sonia Marianni e Francesco Boscolo
parrucche realizzate da Patrizia Rossi e Gaia Ombrini

produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
con il contributo del Parco archeologico di Pompei

durata: 65 minuti

 

La settima edizione della rassegna Pompeii Theatrum Mundi si apre con un omaggio a un grande artista, Emilio Isgrò, con lo spettacolo Odissea cancellata per la regia di Giorgio Sangati. Isgrò mette in scena la sua Odissea in versi insieme a un’installazione concepita in situ. Lo spettacolo è progettato come un’opera nell’opera: le gradinate del Teatro Grande si trasformeranno in una gigantesca video-installazione dell’artista-autore. Mentre i versi dell’Odissea impressi sulla pietra dei gradini verranno cancellati a vista, dalle cancellature stesse prenderà vita il testo. Di fatto la drammaturgia di Isgrò procede allo stesso modo: cancella Omero (tornando alla fonte primaria dell’epica) selezionando solo i frammenti che ritiene essenziali e, sradicandoli dal loro contesto, restituisce loro nuova e inaspettata forza. E’ una riscrittura dissacrante e incredibilmente ironica che rovescia ogni stereotipo sull’epopea a partire da Ulisse, antieroe multiforme, “scassato” e modernissimo, intrappolato in un viaggio senza fine né inizio. Non è possibile orientarsi, infatti, in questo “mare” dopo l’inganno di Eolo con il suo otre da cui sono fuoriusciti tutti i venti del mondo come i mali dal vaso di Pandora. E’ un pelago senza tempo, battuto da un vento “digitale” che estende i confini del mito fino al nostro tempo ed oltre a ricordarci che il classico non appartiene al passato quanto piuttosto al futuro.
Attorno al protagonista si agita un bizzarro e inquietante coro di “nani”, in cui non è difficile riconoscere un’umanità ridotta ai minimi termini. Di tanto in tanto fugaci apparizioni spettrali: Penelope, Nausica, Circe e Polifemo sotto forma di sogni, incubi o allucinazioni arrivano da lontano a visitare/torturare Ulisse, riscrivendo la loro storia, senza censure.
A tratti sembra di assistere a un processo, a un singolarissimo autodafé; ma non c’è né condanna né soluzione; non ci può essere perché saremmo noi stessi a doverci giudicare.
I versi di Isgrò, scritti nel 2003 nel mezzo di una guerra (e mai rappresentati), a distanza di vent’anni ci ricordano come continuiamo, tragicamente, a ripetere i nostri errori dalla notte dei tempi.

Un po’ di anni fa, quando scrissi l’Odissea cancellata, non sapevo come e quando quest’opera sarebbe stata rappresentata. Avevo concluso da tempo l’esperienza di Gibellina – proprio con quella Orestea di Gibellina che diede avvio alle grandi Orestiadi – e in qualche modo volevo sganciarmi da un modello teatrale che io stesso avevo creato grazie al sostegno di Ludovico Corrao, a quell’epoca sindaco della città, il quale credeva come me in un teatro capace di fare della parola umana l’asse portante dello spettacolo.
Conoscevo bene i rischi. Una certa opinione critica allineata, benché fortemente inserita nel clima delle neoavanguardie, considerava “reazionaria” la parola in nome di un teatro d’immagine o di gesto che allora imperversava di qua e di là dall’Oceano.
D’altra parte non ignoravo che l’aver tolto di mezzo preventivamente la parola con le mie cancellature mi proteggeva abbastanza da tale rischio. Ma c’era di più. Avendo operato per anni nel campo della poesia visiva, dove la coesistenza di più discipline e linguaggi liberava la parola dalla sua rigidità gutenberghiana, non mi sarebbe stato difficile far levitare quegli esperimenti fino al livello di un vero e proprio spettacolo.
Da un lato riconquistai la qualità letteraria del testo che a molti sembrava un limite ai ritmi del teatro. Come dire che la potenza della parola di Shakespeare sottrae vigore alla scena del balcone in Giulietta e Romeo, là dove ne esalta, invece, la forza schiettamente spettacolare. Solo per questo per l’Orestea e gli altri testi composti per Gibellina – Gibella del Martirio e San Rocco legge la lista dei miracoli e degli orrori – feci ricorso a una scrittura in versi che della letterarietà è uno dei segni più ostentati e visibili; e se a quel tempo schiere di attori esibivano sulla scena i loro corpi desolatamente muti e silenziosi, io a quei corpi diedi una voce, affinché la loro fisicità si rovesciasse sugli spettatori più facilmente.
L’Odissea cancellata viene da quella esperienza, quando, forte di un’ispirazione che veniva da Eschilo e dai tragici greci in genere, tentai di avvolgere in una nuvola sonora il pubblico.
La seconda provocazione era la speranza di spezzare con un linguaggio alto, comunque distante dal “teatro di poesia” novecentesco, il cosiddetto “teatro di prosa” che da Pirandello portava a Beckett.
Certo non è un caso che anche quest’opera sia composta in versi: per dare un sostegno più solido e vincolante agli attori, al regista e a tutti i creatori dello spettacolo. Allora sognavo un teatro diverso. Una drammaturgia che cancellasse il silenzio. Chissà se quella mia speranza ha avuto già una risposta o ancora l’aspetta. A un certo punto mi sono distratto dal teatro come in altri tempi mi ero distratto deliberatamente dalle arti visive. Tuttavia il mio amico Roberto Andò, direttore del Teatro Nazionale di Napoli, conosceva questa Odissea cancellata, il solo mio testo mai rappresentato. E mi ha sollecitato a tirarlo fuori per il Teatro Romano di Pompei. Un testo cancellato per un paese cancellato. Ma si sa che in latino due negazioni affermano, tramutando in vita la morte.

Emilio Isgrò