In scena non c’è nulla, se non tre attori incredibilmente convincenti nonostante il vuoto intorno, gli abiti dimessi, insomma nonostante la sottrazione di trama, personaggi, luoghi e azione: “Sì restiamo lì, buttati, davanti agli occhi degli spettatori. L’incapacità di rappresentare si fa immagine di un’altra incapacità: quella di vivere. Il qui e ora del teatro, privato di ogni simulazione, altera le sue frequenze rivelando significati nuovi: si fa racconto generazionale, esistenziale. Come possiamo rappresentare la vita se delle cose più semplici e quotidiane scopriamo di non sapere nulla
In scena non c’è nulla, se non tre attori incredibilmente convincenti nonostante il vuoto intorno, gli abiti dimessi, insomma nonostante la sottrazione di trama, personaggi, luoghi e azione: “Sì restiamo lì, buttati, davanti agli occhi degli spettatori. L’incapacità di rappresentare si fa immagine di un’altra incapacità: quella di vivere. Il qui e ora del teatro, privato di ogni simulazione, altera le sue frequenze rivelando significati nuovi: si fa racconto generazionale, esistenziale. Come possiamo rappresentare la vita se delle cose più semplici e quotidiane scopriamo di non sapere nulla o quasi? Cosa è necessario, possibile dire o fare nel qui e ora? Di tentativo in tentativo, fallimento in fallimento, qualcosa sembra rimanere. Un’eco, un sedimento che si cumula, un’impressione sempre più presente nel vuoto dello spazio. Le ripetizioni scavano come dei solchi, divaricano parentesi ancora non riempite. Se qualcosa appare, infine, lo fa solo in quanto proiettato da un di dentro di chi osserva. Il luogo della rappresentazione si sposta dalla scena vuota al retro dei suoi occhi. Come quando si aspetta un ceffone e non arriva. Dov’è finito? Dentro di noi”.