PRIGIONI
testo e regia Vincenzo Pirrotta
con Filippo Luna, Vincenzo Pirrotta, Manuela Ventura, Anna Bocchino, Nicola Conforto, Eleonora Fardella, Alfredo Mundo
musiche originali composte e suonate dal vivo da Serena Ganci
aiuto regia Nancy Lombardo
spazio scenico Vincenzo Pirrotta, Mauro Rea
costumi Roberta Mattera
disegno luci Ciro Petrillo
direttore di scena Nicola Grimaudo
capo macchinista Nunzio Romano
datore luci Enrico Giordano
fonico Daniele Piscicelli
foto di scena Ivan Nocera
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
Dopo il grande successo di pubblico e critica della scorsa stagione con la vicenda vera di Storia di un oblio, Vincenzo Pirrotta torna al Teatro di Napoli, con un debutto assoluto di uno spettacolo che parla dei tormenti di oggi uniti a una reclusione immaginaria.
Ognuno di noi è più d’uno, è una prolissità di sé stesso – Vincenzo Pirrotta
I mali che fuggi sono in te
Seneca
Ancora una volta nel mio lavoro mi accingo a elaborare, formalizzandola in teatro questa volta, una riflessione dolorosa che deriva dall’osservazione delle lacerazioni introspettive dell’uomo, dalle sue inquietudini trasformate in delirio di violenza, dagli enigmi della sua coscienza, percependo, nei casi borderline che ho deciso di raccontare in Prigioni, il tentativo di una via di fuga che non sempre, anzi molto spesso prorompe in atti impetuosi.
Come si può intuire le prigioni di cui mi occuperò non sono fatte di sbarre e muri, anche nei casi in cui, come in uno dei nostri segmenti dis-umani, i contenimenti fisici ci sono e drammaticamente reali, fatti di lamiere arrugginite e di catene pesantissime.
È una riflessione che mi porto dentro da molto tempo ormai e difatti molte volte nella mia testa l’idea di Prigioni ha assunto forme di messinscena che sono mutate nel tempo via via che il travaglio delle mie osservazioni si trasformava, incontrando, con una vera e propria ricerca sul campo di tipo antropologico, esistenze legate a forze mentali e schiavitù di anime angustiate.
Ecco perché intendo Prigioni come una rappresentazione sempre viva e mutevole: è come se la forma teatrale che accoglie le storie che ci facciamo carico di testimoniare, con tutti gli artisti coinvolti, fosse un luogo di passaggio, una sala d’attesa abitata ora da queste sei vicende umane, ma con la porta spalancata e attraverso cui possono passare altre anime, siano esse perse, maledette o in cerca di una possibile salvezza.
«Impossibile sapere perché un’idea si impadronisca di noi, per non mollarci più. Si direbbe che sorga dal punto più debole della nostra mente oppure, più precisamente, da punto più minacciato del nostro cervello».
Questa frase del filosofo romeno Emil Cioran mi è risuonata subito alla mente dopo aver appreso la tragedia che si è consumata all’interno della villetta di Altavilla Milicia vicino Palermo.
Ho immaginato l’angoscia e la disperazione di una madre e dei suoi figli torturati uccisi e bruciati, vittime di un’ossessione, prima che della ferocia del loro padre e marito che, insieme alla figlia e ad altri due complici, ha commesso il delitto che lui chiamava “sacrificio”, attraverso un rito di “liberazione”. È una doppia prigionia che raccontiamo, quella delle vittime morte sull’altare di una convinzione: «erano posseduti dal demonio», continuava a ripetere il loro padre e marito carnefice, e quella della parte più minacciata del cervello di tutti gli adepti di un’idea che non li mollava più, che li ossessionava. E ancora Cioran ci aiuta ad avvicinarci all’incomprensibile angosciante: «Per gli ossessionati non c’è scelta: l’ossessione ha già scelto per loro, prima di loro». Ma la “prigione” può essere dentro i nostri sogni. Negli studi e ricerche che mi hanno accompagnato in questi anni di avvicinamento alla “costruzione” dello spettacolo teatrale mi sono un giorno imbattuto in un bellissimo saggio di Stefan Klein, filosofo e fisico di Monaco di Baviera: I sogni, viaggio nella nostra realtà interiore, pubblicato nel 2016 in Italia da Bollati e Boringhieri. Attraverso Klein ho scoperto l’universo atroce delle allucinazioni ipnagogiche, studiate e così chiamate dallo psicologo francese Alfred Maury, esperienze intense che si verificano all’inizio di un periodo di sonno. Molte di queste esperienze riguardano ladri, alieni, demoni o mostri vari. Tutto ciò che terrorizza di più la nostra immaginazione. Scriveva Franz Kafka alla sua amica Milena Jesenská: «I sogni rimuovono il velo della realtà a cui nessuna visione può essere paragonata. Penso che sia l’orrore della vita». E di orrori nelle “nostre prigioni” ce ne sono e tutti ci scaraventano nell’abisso misero di una disumana umanità: l’insopportabile martirio di una donna che non vuole abiurare alla sua fede o la terribile notte vissuta da una ragazza stuprata da un branco di sanguinari feroci ragazzi in un luogo dove anche il suono del mare lì vicino assumeva il ritmo di una spietata flagellazione. Orrori dunque, ma anche solitudini, come quella di un ragazzo hikikomori, rinchiuso nella sua stanza per sei anni, camera oscura che nel corso del tempo si è popolata di fantasmi. Un fenomeno, questo, che in Italia sta raggiungendo numeri drammatici, come già nel 2015 ci avvertiva l’antropologa Carla Ricci: «In Italia, il fenomeno hikikomori esiste ed è in crescita, sia per alcune condizioni che lo rendono simile al Giappone: eccessiva protezione della famiglia, narcisismo, stretta relazione madre-figlio, sia per le condizioni sociali che favoriscono uno stato di incertezza, insicurezza e disorientamento, che, per chi è emotivamente più esposto, possono rappresentare una spinta decisiva verso il ritiro». La solitudine di un sacerdote inchiodato alla sua tonaca ma che sente addosso la colpa di trasgredire al giuramento di castità vivendo nel delirio continuo del peccato di aver soddisfatto la sua fame sessuale. E gli splendidi versi di Giovanni Testori nel suo Nel tuo sangue sono stati illuminanti e fonte d’ispirazione:
M’aspetti nel buio
Come un’affamata prostituta,
come un ladro m’azzanni
nei riposi difficili e ansiosi.
Mi riporti nel letto privo ormai di lui
Le Tue stigmate affrante.
Che cosa mi domandi?
Che accetti di baciarle,
come facevo sul suo ventre
di figlio delicato,
sulla sua carne
d’arcangelo rubato?
L’ossessione, il pensiero, il delirio, il sogno, l’incubo e dunque la mente e lo spirito che guidano l’universo amarissimo e impietoso, che convochiamo nel palcoscenico e proprio per questo che però c’è la carne che si fa vessillo tangibile, totem, simulacro pulsante nel caldo dei corpi, nelle danze spietate a volte brutali che rappresentano, anche nei canti dolenti e tormentati, il coro di un’umanità imprigionata, legata, incordata e che cerca attraverso l’urlo teatrale di trovare la strada d’una agognata libertà che esiste, o forse no, al di là della quarta parete.
(Contributo pubblicato sul numero di novembre 2024 della rivista semestrale del Teatro Nazionale di Napoli “Perseo”)
Note sulle musiche – Serena Ganci
Le musiche di Prigioni nascono da un confronto continuo con Vincenzo e con tutta la struttura drammaturgica del lavoro. Ho scelto di mescolare strumenti acustici come pianoforte, tamburi, voce e strumenti elettronici: loop station e sintetizzatori nell’intento di dare una forma contemporanea a dei contenuti eterni come quelli della vita, della morte, del sacro. Si dice che cantare è pregare due volte.
La musica e i canti di Prigioni pur accompagnando il dramma di questa disumanità si fanno luce dentro il buio, si fanno rito, si fanno preghiera.
Ogni canto è un urlo di dolore ma anche di speranza.