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SCONCERTO

musica Giorgio Battistelli

TEATRO MERCADANTE 2 Febbraio 2011   20 Febbraio 2011
date da definire

SCONCERTO

Teatro di Musica
musica Giorgio Battistelli
testo Franco Marcoaldi
regia Toni Servillo
con Toni Servillo
e l’Orchestra del Teatro di San Carlo di Napoli diretta da Marco Lena
con la partecipazione di Peppe Servillo
costumi Ortensia De Francesco
suono Daghi Rondanini
luci Pasquale Mari

una produzione Teatri Uniti, Fondazione Teatro di San Carlo, Fondazione Ravello, Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con Piccolo Teatro e MITO SettembreMusica

in abbonamento

Toni Servillo si presenta al pubblico dello Stabile con uno spettacolo tra prosa e musica, Sconcerto, su testo di Franco Marcoaldi e musica di Giorgio Battistelli,
dove il grande attore sarà in scena con l’Orchestra del Teatro di San Carlo diretta da Marco Lena. Sono l’orchestra e il suo direttore, infatti, i protagonisti dello spettacolo. Ma gli strumentisti suonano da soli, vanno per proprio conto. Il direttore non dirige alcunché. È preso da ben altri tormenti, a cominciare dal desiderio di provare a mettere ordine nella propria testa, attraversata come un fiume in piena dai più diversi e contrastanti pensieri. Questo flusso verbale continuo, che ospita il caotico vorticare del mondo, dà voce nella sua totale nudità a quella perdita di senso e direzione in cui tutti ci sentiamo precipitati, perdita qui rimarcata dall’andamento acefalo dell’organico strumentale. Più che un personaggio, dotato di una sua precisa psicologia e di un’altrettanto precisa biografia, il direttore-attore risulta essere il pretestuoso ventriloquo dei nostri giorni. La sua voce e il suo corpo danno forma e sostanza a un gesto teatrale estremo, teso a collegare, per quanto ancora possibile, gli universi impersonali della poesia e della musica.

 

CONVERSAZIONE
Giorgio Battistelli, Franco Marcoaldi e Toni Servillo

MARCOALDI – Credo che arrivati a questo punto il lettore sarà curioso soprattutto di conoscere le vostre riflessioni. Toni, cominciamo da te? Quali sono stati a tuo giudizio i passaggi essenziali nella costruzione di questa ’opera’? E prima ancora, che tipo di ‘opera’ è?

SERVILLO – Le ragioni che hanno portato prima all’individuazione dell’idea, successivamente all’elaborazione del testo e delle musiche, infine al nostro comune esperimento di ‘teatro di musica’, le hai già spiegate bene tu, Franco, nell’introduzione; ciascuno di noi però, ed è normale, vede il tutto da un’angolazione propria, personale. E nel mio caso mi preme dire qualcosa sulle motivazioni più profonde  che mi hanno spinto a immaginare un’azione teatrale e musicale insieme. A cominciare dalla mia passione per la figura del direttore d’orchestra, che non ha a che fare soltanto con la mia più generale passione per la musica. Per come la vedo io, il direttore d’orchestra rappresenta in maniera precisa, definitiva, emblematica, non soltanto l’interprete musicale, ma colui che, attraverso il proprio gesto, crea l’hic et nunc dell’atto spettacolare; un atto che non lascia niente di scritto, niente di testimoniabile. E che né i nastri né i dischi possono riprodurre. Tutto questo si dà grazie a quella strana forza materica rappresentata dal suono, che fa provare allo spettatore un’emozione fisica molto, molto particolare. A me la figura del direttore d’orchestra interessa innanzitutto proprio per la dimensione che sfugge a qualunque ermeneutica. A qualunque valutazione critica. Mi interessa il suo gesto, un’azione che coincide con la sua presenza e finisce per concentrare tutte le energie che per convenzione nella sala da concerto convergono, sia che si ascolti Brahms o Mozart o Beethoven. E’ lui, il direttore d’orchestra, che offre al pubblico la possibilità della comprensione condivisa di un atto oggettivamente irripetibile, che accade solo e soltanto in quel preciso istante. Tutto ciò, neanche a dirlo, ha a che fare…

MARCOALDI – Con la dimensione più intima del teatro, ontologicamente incarnato nel momento presente.

SERVILLO – Con una differenza decisiva, però: rispetto alla natura del testo drammaturgico, quella del testo musicale è assieme più astratta e più fisica. Più astratta, come dimostra la scrittura sul pentagramma, e più fisica, perché si tratta di vibrazione di suoni nell’aria. I quali suoni solleticano le emozioni e la fantasia e aumentano in modo esponenziale la dimensione incantatoria dell’accadimento. Anzi, più che incantatoria, sarebbe meglio dire magica, misteriosa. Perché l’incantesimo blocca, mentre il mistero mette in moto pensieri, apre la testa. Tanti grandi direttori d’orchestra hanno raccontato perfettamente questo processo. Penso ad esempio a Celibidache, il quale a un certo punto afferma che la valutazione più appropriata per un concerto non è ‘bello’,’brutto’,’entusiasmante’, ma ‘è’, ‘è così’, come a voler autenticamente nominare la musica ogni volta come fosse la prima volta.

MARCOALDI – Quasi a sottolinearne l’aspetto sorgivo, il suo venire, ogni volta, al  mondo.

SERVILLO – Esatto. E in questo processo così puro, felice, noi che cosa abbiamo fatto, con un’operazione forse irrispettosa, irriguardosa, addirittura blasfema? Abbiamo pensato alla figura del direttore come protagonista del processo esattamente contrario. Come colui che si fa carico di un’impasse, di un’afasia. Di quell’ingorgo mentale descritto dal testo, ingorgo che finisce poi per riflettersi sull’inceppamento dello stesso meccanismo musicale. E dunque dell’intero concerto, cosa di cui dà continuamente conto al pubblico. Da questo punto di vista potremmo anche dire che il nostro lavoro riprende quanto è già accaduto in tante prove novecentesche. Penso a tutti quei casi in cui autore e interprete mettono in gioco se stessi, e il loro proprio fare, chiamando il pubblico a testimone. In tal senso la scelta a protagonista del direttore d’orchestra mi pare azzeccata. Perché nessuno meglio di lui può indicare in maniera altrettanto secca e stridente, tanto l’impasse esistenziale di cui siamo tutti vittime, quanto le difficoltà ma anche le chance offerte dalle musica, per una eventuale via d’uscita.
Ecco allora che dentro la liturgia più consolidata, quella del concerto, troviamo un direttore che anziché dirigere, parla. Anzi, straparla. Da solo, con gli orchestrali, con il pubblico. E fa riverberare di continuo questo sentimento di sconcerto, questa inadeguatezza delle parole, quel ‘troppo mondo nella testa’, che impedisce di avere facilità e felicità nelle relazioni, chiarezza nelle esposizioni, tempo per approfondire. Naturalezza, pulizia e onestà delle intenzioni.
La scommessa era che soltanto dentro una forma così rigida come quello di un concerto, fosse possibile raccontare l’inferno di insensatezza in cui siamo finiti. Senza proteggerci stavolta sotto l’ombrello delle metafore. In altri termini, che forse solo così ci fosse possibile parlare chiaro, fuori dai denti. Mettendo nero su bianco tutto il nostro disagio. Tutta la nostra confusione. Salvo poi ricercare, proprio grazie alla sponda offerta dal mistero musicale, la strada per ripartire dal grado zero. Dalla massima semplicità dei sentimenti e delle parole.
Bene, tutto questo abbiamo voluto chiamarlo ‘teatro di musica’. Non è un melologo, insisto su questo punto. Sconcerto non lo è per infiniti motivi. Innanzitutto, perché i personaggi in scena sono due, anzi tre: il direttore, la musica e l’orchestra. Che dialogano ed equivocano tra loro. Tanto in ordine alla musica, quanto alla parola. E tutto questo accade, ripeto, al di fuori di qualunque forma tradizionale, codificata. Al di fuori di qualsiasi riparo offerto dalle metafore e dalla storia. Nella Prova d’orchestra di Fellini, quantomeno, si raccontava di un mondo sindacalizzato, e dunque di un conflitto tra diverse parti sociali. Qui in realtà la sensazione di disorientamento finisce per coinvolgere e confondere tutti, è come se ciascun soggetto giocasse a rimpiattino con l’altro e con se stesso. Ma, ripeto, la cosa che a me più affascinava, era portare questo smarrimento, questo sconcerto generalizzato, nel luogo per me più sacro. Nell’ hic et nunc offerto dall’immanenza esecutiva del direttore, che nel miracolo dell’interpretazione, si esalta e si annulla nella creazione e ricreazione della pura sorgività musicale.

MARCOALDI –  E per te, Giorgio, quali sono le questioni che questo lavoro ha sollevato, in quanto compositore? Te lo chiedo perché se è vero che il luogo in cui tutto accade è quello della sala da concerto, di cui si scoperchiano ordine e codici, il primo ad essere investito da questo sommovimento è proprio il compositore. E dico subito, Giorgio, di aver trovato molto generoso il tuo atteggiamento. Nell’opera classicamente intesa, e questa sicuramente non lo è, il librettista è abituato a svolgere una funzione ancillare. Auden, che ha scritto uno dei più bei libretti del Novecento, ha addirittura teorizzato questa funzione di servizio. Mentre il compositore è il comandante in capo, il deus ex machina assoluto e indiscutibile. In questa nostra strana ‘cosa’, invece, anche tu hai dovuto modulare e adattare la tua musica alle esigenze più generali dello spettacolo.

BATTISTELLI – Ci sono diversi aspetti del problema. Il primo riguarda il contenuto del testo e l’emozione intellettuale ed emotiva, sensuale, che suscita. Il secondo è il problema antico, eterno, del rapporto tra il testo e la musica: come interagiscono tra loro queste due sfere? C’è poi un altro problema ancora: se un testo debba o meno raccontare una storia. Questo è stato sempre un nodo fortemente problematico per la musica, che si è acutizzato nel primo Novecento, con le avanguardie storiche. Si deve raccontare una storia? non si deve farlo? E’ possibile, o impossibile farlo? Su questa questione si dibatte da decenni con soluzioni contrastanti e contraddittorie. Per quel che mi riguarda, io ho sempre voluto raccontare storie, proprio utilizzando un linguaggio oggettivamente  astratto quale la musica. Ora, se possibile, nel caso di Sconcerto le cose si complicano ulteriormente: perché si è in presenza di una drammaturgia molto chiara e netta, ma non apparentabile a nessuna forma codificata. Lo ha appena ripetuto Toni: questo non è un melologo, non è un’opera in senso melodrammatico, non si fa riferimento alla grande tradizione ottocentesca. E, aggiungo, questo nostro lavoro non fa neppure parte di passate esperienze legate al teatro musicale o all’azione musicale. Penso all’action music, che è più di tipo performativo, più simile all’’happening
No, Sconcerto si avventura in un’altra, diversa dimensione, che trovo molto interessante. Tanto dal punto di vista dei contenuti, perché mi sembra fortemente legata all’esperienza delle donne e degli uomini di oggi, quanto dal punto di vista estetico, formale: perché ha una evidente ragion d’essere teatrale, quella stessa che nel mio lavoro avverto sempre come urgente, impellente. Anche quando scrivo pagine di musica sinfonica.
Se vuoi sapere come ho vissuto questa esperienza dal punto di vista della scrittura, devo riconoscere che all’inizio non è stato affatto facile trovare un punto di equilibrio. Per me risultava complicato, addirittura lacerante, dover andare incontro a delle esigenze registiche che al momento non sentivo immediatamente come mie, che non corrispondevano alla mia scrittura musicale. Poi, lentamente, ho capito che le indicazioni di Toni avevano una loro indubbia coerenza. Non erano volte a potenziare una aspetto piuttosto che un altro – il testo, la musica, il gesto dell’attore – ma la potenza e l’efficacia dell’insieme. Di quel teatro di musica di cui stiamo parlando.

SERVILLO – Vedi, Giorgio, a pensarci bene tutta l’operazione di Sconcerto ha una doppia valenza: da un lato ci preoccupa, dall’altro ci eccita. La convenzione che abbiamo scelto, quella del concerto, è molto chiara. Dunque non è affatto generico il territorio in cui si inscrivono tanto il testo di Franco, quanto la tua musica, quanto il mio gesto teatrale. Il fatto però è che quella forma-contesto, esempio massimo dell’armonia, noi la scompaginiamo in partenza. Da qui l’ambiguità della natura dell’opera, la nostra difficoltà a darle un nome; e insieme l’estrema chiarezza dell’intenzione. Ed è proprio questa crepa che mi affascina. Perché, ripeto, probabilmente soltanto dentro a quella convenzione scompaginata si può esprimere tutta l’urgenza del disagio contemporaneo, tutto il disorientamento morale, ideologico e politico in cui siamo immersi. Solo così si può affrontare l’imbarbarimento della nostra lingua, lo svuotamento della nostra vita civile: perché possiamo farlo al riparo dalla trappola tribunizia, ideologica, demagogica. La dico diversamente e in modo più brutale: forse soltanto compiendo quest’oltraggio al rito sacro della musica, potevamo dire pane al pane, potevamo restituire il senso di un vero e proprio allarme rivolto a un paese che sembra narcotizzato. E’ come se il concerto mancato, lo sconcerto, rappresentasse il correlativo oggettivo di quella evidenzia visionaria che ci abita.

BATTISTELLI – Con tutti i problemi formali che ne discendono. Te ne segnalo soltanto uno, la diversa velocità dei diversi linguaggi. Perché il linguaggio scenico-teatrale, quello della parola poetica, e infine quello della musica, non si muovono  alla stessa velocità. Mentre noi abbiamo dovuto proiettare tutti e tre su un’unica immagine, un’unica visione, un unico orizzonte. Oppure, altro problema: la questione delle citazioni. A un certo punto Toni mi ha chiesto di inserire una citazione da Brahms. E nell’economia dello spettacolo, per il punto preciso in cui cade, è un’idea molto giusta e molto forte. Che non discuto minimamente. Però per me, in termini musicali, si è trattato di una scelta problematica. Non è soltanto una questione di rispetto nei confronti della tradizione. Ma riguarda semmai la difficoltà di inserire dentro un’opera del nostro tempo un elemento, una scheggia, che appartiene a un’altra epoca. Ripeto, capisco benissimo la sua funzionalità da un punto di vista drammaturgico, ma musicalmente la cosa a me fa problema. E’ inutile negarlo.

MARCOALDI – Giorgio dice una cosa interessante. Che riguarda la specificità dei linguaggi. E la loro elasticità, la loro plasmabilità, adattabilità. Per quanto riguarda le citazioni, esplicite o sottotraccia, io ad esempio ne ho fatto ampio uso. Al contempo, in modo volontario, ho cercato una scrittura quanto più ritmica e musicale possibile; in grado di echeggiare, magari per contrasto, i suoni di Giorgio. O di andare in voluto controtempo, dal punto di vista del contenuto, rispetto alla linea musicale contemporanea: come quando si invoca la bellezza della musica facendo allusione a un momento storico che precede la dodecafonia, l’atonalità, eccetera eccetera.
Ricordo queste cose perché mi piace rivendicare un’altra anomalia di questo nostro lavoro: il suo tratto, diciamo così, artigianale. In campo ci sono tre persone che, con pari investimento, mentale e di passione, lavorano a un progetto comune preoccupandosi soltanto del manufatto finale. Senza rivendicare nessuna supremazia e nessuna separatezza del proprio ambito. Insomma, tutti abbiamo sempre discusso di tutto: testo, musica e messa in scena.

SERVILLO – Aggiungerei che nessuno di noi ha mai lavorato da solo, senza che prima si fosse deciso tutti insieme in quale direzione andare. I diversi passaggi, le diverse tappe del lavoro, sono state sempre sottoposte a una verifica comune. E quindi, in proporzione, il lavoro fatto insieme è stato di gran lunga superiore a quello fatto da ciascuno separatamente, per conto proprio.

BATTISTELLI – Vorrei sollevare un altro problema, che non è di tipo filologico, ma immediatamente creativo. Prima Toni faceva riferimento alla figura del direttore d’orchestra. Bene, pensiamo a quanto il problema del ‘tempo’ sia centrale per ogni direttore. Kleiber diceva: ogni sinfonia di Mozart ha il tempo giusto. E solo quando lo tocchiamo, ci accorgiamo qual era. Eppure ci sono tempi interpretativi molto diversi l’uno dall’altro. Una certa sinfonia di Beethoven, eseguita da Bruno Walter, è diversa da quella eseguita da Celibidache, la quale a sua volta è diversa da quella eseguita da Abbado. Le note sono sempre quelle, la musica è sempre quella. Si tratta di una dilatazione o contrazione dei tempi. Ebbene, nel nostro caso questo problema, se possibile, è raddoppiato dal fatto che la musica, che ha un suo tempo preciso e scritto, deve convivere con i tempi scenici, ogni volta diversi e dunque in qualche modo aleatori, di un direttore-attore.

SERVILLO – Per forza. Se tutto parte dalla fascinazione per  quell’hic et nunc di cui parlavo prima, tanto le parole, quanto la musica, producono sensazioni vive, in atto, con cui l’interprete deve necessariamente fare i conti. Per questo dico sempre che tanto i materiali poetico-teatrali di Franco, quanto quelli musicali di Giorgio, dovranno in una certa misura essere gestiti sul momento, direttamente sul palcoscenico. A seconda di cosa accadrà. Anche perché non dimentichiamo che in scena ci saranno altri due ‘personaggi’ con cui dovrò fare i conti: il vero direttore, Marco Lena, e l’orchestra.

MARCOALDI – Insomma, un sistema di scatole cinesi…

SERVILLO – Non voglio renderla troppo complicata, ma l’attore che interpreta un direttore d’orchestra, è come se facesse un’interpretazione dell’interpretazione. Non interpreta Tartufo o Polonio. No, interpreta il Direttore d’Orchestra che a sua volta è un interprete di un’altra cosa. Senza contare che il pubblico vedrà dirigere un direttore finto, mentre a dirigere c’è un vero direttore nascosto dietro al podio. La frantumazione è continua, ininterrotta. Il tutto io me lo immagino così: c’è una tavolozza rappresentata da una sala da concerto. Poi c’è una tela bianca rappresentata dall’orchestra. E infine ci sono i colori della parole e quelli dei suoni. Spero e credo che il pubblico