QUARTET è la card natalizia del Teatro di Napoli che comprende 4 ingressi*
a scelta tra Mercadante e San Ferdinando a soli 50 euro. È possibile usarla anche in coppia per assistere a 2 spettacoli.
*di cui almeno 2 obbligatori al Teatro San Ferdinando.
è nominale e valida per studenti under 30. Costa 30 euro e consente di assistere a 5 spettacoli di cui almeno 2 al
San Ferdinando.
è nominale. Costa 40 euro e consente 6 ingressi a scelta tra tutti gli spettacoli* di cui almeno 2 al San Ferdinando.
*sono esclusi i seguenti spettacoli fuori abbonamento: La notte di Vitaliano Trevisan; Medea; Bérénice; Gli occhiali di Šostakovič; Antigone in the Amazon, Il romanzo della Bibbia.
costa 80 euro e consente 6 ingressi a scelta tra tutti gli spettacoli* di cui almeno 2 al San Ferdinando.
È valida anche in coppia (2 ingressi per 3 spettacoli).
*sono esclusi i seguenti spettacoli fuori abbonamento:
La notte di Vitaliano Trevisan; Medea; Bérénice; Gli occhiali di Šostakovič; Antigone in the Amazon, Il romanzo della Bibbia.
Il triennio 2021-2024 della Scuola del Teatro Nazionale di Napoli, diretta da Renato Carpentieri, giunge alla sua conclusione. Per l’occasione, gli allievi, sotto la guida registica del loro direttore, portano in scena Noccioline che Fausto Paravidino scrisse nel 2001 a soli 25 anni su commissione del Royal National Theatre di Londra.
L’opera, articolata in ventitré scene, ognuna introdotta da un titolo metaforico, racconta di un gruppo di ragazzi, che in un elegante salotto ordinano pizza e consumano Coca-Cola. Sono adolescenti inconsapevoli di ciò che li circonda, al punto da risultare innocenti anche delle piccole angherie tipiche di quell’età, che diventano però auspicio di violenza futura.
La causticità è financo divertente e non si percepisce chi ha torto e chi ragione. Un modo d’agire diverso appare, tuttavia, impossibile.
Il secondo atto è ambientato dieci anni dopo e il futuro si configura, se è possibile, ancora più oscuro. Quei presagi di un tempo a venire più cattivo sembrano essersi materializzati tutti.
I bambini una volta innocenti sono ora adulti violenti, che non riescono a ricordare. Conservano però l’umorismo di un tempo e questo li rende ancor più inquietanti. Non c’è oscenità in questi personaggi, ma è la loro spaventosa freddezza a non lasciare indifferente lo spettatore.
Da I quindicimila passi, Tristissimi giardini, Standards, Back tulips, Works sono tratte alcune pagine per comporre un racconto, un ritratto frammentario e naturalmente incompleto di uno degli scrittori più importanti del nostro tempo. Un Reading dedicato ai testi letterari del grande scrittore Vitaliano Trevisan. La drammaturgia si compone di pagine tratte da diversi volumi: da I quindicimila passi (2002), primo romanzo uscito da Einaudi, che consacra lo scrittore vicentino: il racconto del protagonista, cadenzato come in uno standard jazz, dai suoi (15000) passi da una parte all’altra della città di Vicenza; a queste pagine, in una sorta di montaggio incrociato, sono interposti brani dall’ultimo libro, Black Tulips (uscito postumo per Einaudi nel 2022): il quaderno nigeriano di Vitaliano Trevisan; e da Tristissimi giardini (Laterza 2010), da Standards (Sironi, 2002) e dal capolavoro Works (Einaudi 2016).
Firma la regia Andrea Baracco.
Euripide con Medea rappresenta l’indicibile e il non rappresentabile del cuore umano nelle sue pieghe più profonde e nelle sue parti più oscure e riposte, dove istinto e intelletto, passione e ragione si mescolano e si confondono senza che sia possibile separarle; dove la logica, divenuta fallace nel suo procedere, salva l’onore perché salva le apparenze, ma per far questo obbedisce alle ingiunzioni di una forza oscura, dove l’assoluto smarrimento si coniuga con la lucidità estrema.
Medea è veramente umana nella complessità del suo carattere: è una donna di straordinaria razionalità ma anche di estrema passionalità e la molteplicità dei gesti è il risultato del diverso e mutevole rapporto di forze tra esigenze razionali e istanze emotive, che Laura Morante restituisce con intensità senza pari. Medea fissa nell’amore di Giasone tutta la sua energia esistenziale fino a travolgere ogni coscienza di bene e di male: e uccide.
Testo tra i più fortunati e rappresentati di Carlo Goldoni, La locandiera secondo Antonio Latella verte intorno al «tema dell’eredità che è il punto cardine di tutto – spiega Latella –. Mirandolina seduta sul letto di morte del padre riceve in eredità la Locanda, ma anche l’ordine di sposarsi con Fabrizio, il primo servitore della Locanda. Credo che Goldoni con questo testo abbia fatto un gesto artistico potente ed estremo, un gesto di sconvolgente contemporaneità: innanzitutto siamo davanti al primo testo italiano con protagonista una donna, ma Goldoni va oltre, scardina ogni tipo di meccanismo, eleva una donna formalmente a servizio dei suoi clienti a donna capace di sconfiggere tutto l’universo maschile, soprattutto una donna che annienta con la sua abilità tutta l’aristocrazia. Di fatto Mirandolina riesce in un solo colpo a sbarazzarsi di un cavaliere, di un conte e di un marchese. Scegliendo alla fine il suo servitore come marito fa una scelta politica, mette a capo di tutto la servitù, nobilita i commercianti e gli artisti, facendo diventare la Locanda il luogo da dove tutta la storia teatrale del nostro paese si riscriverà, la storia che in qualche modo ci riguarda tutti». Sonia Bergamasco dà vita a una Mirandolina differente da quella che la tradizione ha spesso proposto, sottolineando la profondità dell’approccio goldoniano. «Spesso noi registi – continua Latella – abbiamo sminuito il lavoro artistico culturale che il grande Goldoni ha fatto con questa opera, la abbiamo ridimensionata, cadendo nell’ovvio e riportando il femminile a ciò che gli uomini vogliono vedere: il gioco della seduzione. Goldoni, invece, ha fatto con questo suo testamento, una grande operazione civile e culturale. Siamo davanti a un manifesto teatrale che dà inizio al teatro contemporaneo, mentre per una assurda cecità noi teatranti lo abbiamo banalizzato e reso innocente. La nostra mediocrità non è mai stata all’altezza dell’opera di Goldoni e, molto probabilmente, non lo sarò nemmeno io. Spero, però, di rendere omaggio a un maestro che proprio con Goldoni ha saputo riscrivere parte della storia teatrale italiana: parlo di Massimo Castri.»
Roberto Latini e Lucrezia Guidone incarnano la coppia più ambigua del teatro elisabettiano: Macbeth e Lady Macbeth. Jacopo Gassmann rilegge la tragedia shakespeariana come il lungo viaggio di un uomo alle radici del male o come il progressivo inabissamento di una coscienza nel vasto e inesplorato territorio del rimosso.
È in un luogo enigmatico e oscuro, “dove nulla è se non ciò che non è”, che sarà ambientato il nostro Macbeth. Una valle del perturbante, un portentoso labirinto della mente, fatto di visioni improvvise e soglie da oltrepassare.
Sono diversi infatti i temi (e gli interrogativi ) che sottendono la nostra esplorazione del testo shakespeariano.
Innanzitutto, Macbeth è la storia di uno sguardo, uno sguardo che vede troppo perché si è nutrito della “radice della follia”.
La sua mente poderosa racchiude – come in un eterno corto circuito – passato, presente e futuro ed è questa stessa capacità di contenere e accelerare il tempo, di vedere e allucinare il futuro, varcando i confini del possibile e dell’impossibile che lo porterà, alla fine, alla sua stessa autodistruzione.
In questo luogo metafisico (che tanto ricorda la “Zona” di Andrej Tarkovskij), abitato da proiezioni fantasmatiche, dove il tempo stesso può essere piegato e i desideri più sfrenati sembrano potersi avverare, è come se il protagonista compisse un percorso a ritroso nella propria vita. All’inizio del testo lo incontriamo all’apice della sua virilità – il guerriero più rispettato della Scozia, “prediletto del Valore” – e lentamente lo vedremo tornare bambino. Un bambino sperduto, sazio di orrori.
Macbeth infatti è anche la storia di un trauma antico che attiene all’infanzia e che sembrerebbe avere origini nell’impossibilità dei due protagonisti (che Freud definiva parti complementari e inscindibili della stessa psiche) di poter procreare. Non a caso, la parabola di Macbeth potrebbe essere letta come un disperato e sanguinario tentativo di sublimare questa impossibilità andando a eliminare, occupandone il posto, tutti i padri (e i figli) che sembrano frapporsi lungo il suo cammino.
Macbeth è il lungo viaggio di un uomo alle radici del male. O meglio ancora, il progressivo inabissamento di una coscienza nel vasto e inesplorato territorio del rimosso. Una lunga giornata che procede inesorabilmente verso la notte, una notte in cui tutto va storto, in cui l’ordine delle cose è rovesciato e la natura stessa viene ferita e violentata. È a metà del testo infatti che troviamo un viatico al nostro progetto. Dopo la morte di Duncan, che non è solo un attentato alle leggi morali, politiche e dell’ospitalità, ma una vera e propria lacerazione del tessuto divino dell’umano, sarà Macduff ad ammonirci: “Affacciatevi alla camera, e una nuova Gorgone vi accecherà. Non mi chiedete di parlare.” È come se da questo punto in poi, un punto di non ritorno, il protagonista, attraverso la sua potenza distruttiva e visionaria al contempo, ci accompagnasse in una discesa agli inferi o lungo una galleria di immagini (e azioni) sempre più violente ed efferate che non dovrebbero mai essere evocate né venire alla luce. Una galleria dell’impensabile, dell’indicibile dunque, in cui entriamo a nostro rischio e pericolo.
Un spazio mentale plumbeo, un limbo buio, materico, con pareti di un nero organico.
Il suolo terroso e polveroso, allude alla violenza del campo di battaglia, ma ancor piu al pantano che negli incubi notturni rallenta il passo. È in questo luogo oscuro, che si consuma il dramma psicologico di Macbeth. Il muro di fondo di questo spazio, è in realtà una sorta di grande portale semovente, capace di deformarsi e dilatarsi aprendo varchi di diverse misure, svelando ciò che sta dietro di esso, ovvero un immenso panorama bianco di cui non intuiamo la fine. Ed è da questo abbagliante panorama bianco (luogo delle streghe) che emergono visioni, squarci di futuro e di inconscio. Immagini premonitrici, perturbanti, che oscillano indistintamente tra passato, presente e futuro. L’ipnotico luminescenza di queste visioni guida i deliranti passi di Macbeth, come una creatura notturna inesorabilmente e drammaticamente attratta dalla luce.
Nel Macbeth di Jacopo Gassman, il movimento scenico non descrive, non racconta: è il residuo fisico di un pensiero che implode. Un mondo di visioni in cui i corpi agiscono negli interstizi della mente del protagonista, che viaggia velocemente avanti e indietro sull’elastico del tempo. I corpi sono come tracce di un’esistenza sfocata, sussurri visivi che scivolano dentro e fuori da un tempo che si dilata e si contrae, senza mai stabilizzarsi, nel fluire ondivago della psiche di Macbeth. Non esiste un qui e ora: i personaggi emergono come materie sospese tra l’essere e il dissolversi. Si stagliano lungo traiettorie che rispondono agli impulsi sotterranei del potere, alla forza disordinata di una mente che si smarrisce in sé stessa. Ogni gesto è un frammento incompleto, qualcosa che comincia ma non si compie, una linea spezzata in cerca di significato.
L’azione si svolge in un groviglio di ossessioni, apparizioni che si espandono fino a svanire, accelerazioni violente che spezzano l’illusione di continuità: i corpi oscillano come calamite sul confine instabile tra bene e male, tradendo ogni idea di progressione. Sono ombre che si ritrovano in loop, resti che si aggirano in un perimetro mentale dove il futuro è già accaduto e il passato non smette di colpire.
Il lavoro fisico in questo allestimento non cerca di spiegare, ma di creare uno spazio dove la mente di Macbeth diventa visibile, in tutta la sua fragile, terrificante instabilità. Un mondo di ombre che si dissolve nel momento stesso in cui prova a farsi materia.
«L’ottima regia di Jacopo Gassmann e le ottime e splendide scene di Gregorio Zurla hanno reso il Macbeth di William Shakespeare […] riuscita rappresentazione carica di un fascino dalle tinte “gotiche”».
(Marco Sica, ROMA, 08/12/24).
«Di rado il teatro riesce a rendere giustizia a Macbeth, la tragedia più cupa e sconsolata di Shakespeare, perché drammaticamente la vicenda raggiunge il climax troppo presto, e il finale è ritardato da episodi […] che poco appassionano il pubblico. […] Al Mercadante di Napoli la regia di Jacopo Gassmann affronta il cimento guardando il mostro negli occhi, ossia affidandosi al testo, che fa ascoltare il più chiaramente possibile».
(Masolino D’Amico, LA STAMPA, 08/12/24).
«Disegno lucido di Jacopo Gassmann, con un Latini da paura, una Guidone di inedita fraudolenza e, […], il toccante Nicola Pannelli come Duncan, Portiere e Vecchio».
(Rodolfo di Giammarco, LA REPUBBLICA, 13/12/24).
«Macbeth, […], è Roberto Latini, con la sua gestualità implosa, la sua vocalità che indulge a una scansione fonetica, cadenzata. Al suo fianco Lucrezia Guidone è una Lady Macbeth di rara misura, contenuta nella sua metafisica malvagità».
(Fabrizio Coscia, IL MATTINO Napoli, 06/12/24).
«Latini è sempre sorprendente nel suo percorso d’attore e anche qui sorprende il suo Macbeth disperatamente solo, compagno di una Lady anaffettiva che Lucrezia Guidone rende sicura del suo essere al servizio del potere. […] Nicola Pannelli, Sergio Del Prete, Michele Schiano di Cola, e Riccardo Ciccarelli, che, in gruppo compatto, si fanno notare e ricordare per la precisione del loro disegno d’umanità smarrita […]».
(Giulio Baffi, REPUBBLICA.IT Napoli, 11/12/24).
Al 2 atto dello spettacolo è presente, in una scena della durata di circa 2 minuti, una luce stroboscopica
Il 2025 della programmazione del Teatro Stabile di Napoli inizia con una produzione firmata dal direttore Roberto Andò, Sarabanda ultima opera di Ingmar Bergman, che sebbene pensata per il cinema ha una struttura straordinariamente affine al linguaggio teatrale. In scena Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi. In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a parlare dei protagonisti di Scene da un matrimonio diventati, trent’anni dopo, più maturi ma anche più spietati.
Sarabanda è il film-testamento di Ingmar Bergman. Il grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o Handel. Come disse lo stesso Bergman in una intervista «essa finì col diventare una delle quattro danze fisse nelle suite strumentali barocche, inizialmente come primo movimento, poi come terzo».
Sarabanda è l’opera più radicale di Bergman e sembra riconsiderare i grandi quesiti che il maestro svedese aveva affrontato nelle pellicole precedenti. Anche se è ritenuto un sequel di Scene da un matrimonio, a ben vedere è un film del tutto autonomo. Conosciamo le parole con cui il regista introdusse il lavoro alla troupe e agli interpreti: «Quello che stiamo per fare può apparire semplice: un prologo, dieci dialoghi, un epilogo. È bene che sappiate che sarà estremamente difficile. È la mia ultima regia: esigerò il massimo da me e da voi. Non avrò pietà». Parole chiare, come sempre. Parole che mostrano quanto considerasse cruciale l’opera che aveva in mente. Un’opera, per l’appunto, terminale.
La famiglia, la solitudine, l’arte come possibile redenzione, la vecchiaia, la morte sono alcuni dei temi attorno a cui ruotano i dialoghi di quella che si può definire una vera e propria pièce di teatro (Bergman fu a lungo indeciso sulla forma più congeniale cui affidare l’opera che stava concependo, se teatro, radio o cinema). Temi che sono ben presenti anche nella grande drammaturgia di Strindberg, di Ibsen, di Fosse, in una continuità che, al di là dell’originalità delle singole voci, tratteggia le linee di un preciso paesaggio esistenziale.
Il Bergman di Sarabanda non sembra credere più a nulla, è disperatamente distruttivo, e incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso delle relazioni umane.
Il plot è un pretesto: Marianne va a trovare Johan, il suo ex marito, nella casa isolata dove si è ritirato. Il soggiorno dovrebbe durare pochi giorni e invece si prolunga per alcune settimane. L’animo dell’uomo è inquieto, in rotta col mondo e anche con il figlio Henrik che vive poco distante da lì insieme alla figlia diciannovenne, Karin, promettente interprete del violoncello.
L’andamento in cui si incastrano le scene è musicale e i nodi, i conflitti dei personaggi, non sembrano sciogliersi mai, si susseguono irrisolti nella loro brutale drammaticità, anche se a volte sembrano inchinarsi all’ineffabile, come nella sibillina indicazione apposta da Hindemith per interpretare il movimento di una sua sonata: «Lebhaft ohne Ausdruck» (vivo senza espressione).
Se in Fanny e Alexander Bergman si teneva stretto al calore dei riti familiari e al teatro come guscio protettivo in cui è ancora possibile ricreare un mondo illusorio, in Sarabanda la vita è rappresentata nella dimensione di una angosciante bipolarità – la depressione è il vero tema sui cui è costruito il film – in un’assillante resa dei conti con i fantasmi del passato, con la paura della morte, con il senso di colpa. Riecheggia il Kierkegaard di Timore e tremore e Sull’angoscia. Anche per Bergman «la disperazione è la malattia mortale, un eterno morire senza morire, l’assenza della speranza di poter vivere». Nonostante sia molto dialogato, come in tutti i film di Bergman, anche in Sarabanda è decisivo il valore del silenzio e del gesto. I personaggi si rivelano più in quello che non dicono che in quello che dicono. D’altronde, in una storica intervista televisiva Bergman dichiarò che «la sua sfiducia nella parola era tale da fargli considerare la sola forma di verità il silenzio». In Sarabanda ci si parla per ferirsi, o per riferire di ferite passate, senza che sia mai possibile una minima intesa. Come è difficile trovarvi una traccia di speranza. Anche se forse, per momenti fuggevoli, l’autore sembra affidarla a Karin, la giovane aspirante solista che verso la fine della pièce esprime l’intenzione di liberarsi del padre per entrare nell’orchestra diretta da Claudio Abbado, sperimentando la gioia di suonare con gli altri. Per il resto, regna l’amarezza, il risentimento, l’odio. Come in Festen di Vinterberg, film molto amato da Bergman, non c’è salvezza per la coppia, come non c’è ricomposizione possibile per il filo di trasmissione genitori-figli (nel rapporto tra Henrik e Karin affiora anche il tema dell’incesto). Insomma, il mondo della relazione è disperato e misero. Un inferno strindberghiano dove cova solo il disamore, dove non c’è spazio per alcuna trascendenza. Talmente spietato da creare l’effetto contrario. Un canto sulla mancanza d’amore che nella sua intensità si rovescia in una spasmodica ricerca d’amore. Un poema sul paesaggio interiore dello sconforto e del congedo dal mondo.