Ospitalità
19 – 30 ottobre 2005 | Sala Mercadante
Doppiaeffe – Compagnia di Prosa Mariano Rigillo
Titus Andronicus
di William Shakespeare
traduzione Maria Vittoria Tessitore
adattamento Roberto Guicciardini
regia Roberto Guicciardini
con Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini
scene Lorenzo Ghiglia
musiche Dario Arcidiacono
foto Tommaso Le Pera
Chi ha visto il Titus di Julie Taymor con Anthony Hopkins e Jessica Lange ha un’idea pulp di quella che da alcuni è considerata la prima tragedia scritta da William Shakespeare.
Della vendetta potremmo dire, o, della corruzione del potere. Il riferimento a Ovidio, a Seneca, o alla novellistica italiana coeva sono evidenti e testimoniano di una sua elaborata genesi.
Che si tratti di un rifacimento di un’opera preesistente o che appartenga del tutto all’autore non ha molta importanza. Si avvertono, come scaglie luminose, tutti i motivi del suo genio drammatico.
La terribile vicenda, e la esplicita incongruità dell’azione, recano i segni degli stilemi tipici del teatro elisabettiano. Ma la genialità di molte scene, l’intensità passionale dei personaggi principali, il tono alto del linguaggio, recano senza dubbio l’impronta di Shakespeare.
Titus Andronicus è come un’immersione alle radici dell’esperienza umana. Una sorta di scandaglio calato in quel groviglio di sentimenti, sensazioni, motivazioni irrazionali, che contribuiscono in maniera obliqua ma determinante a costruire l’esperienza stessa, immersa in un sistema sociale capace di assorbire al suo interno violenze collettive e malvagità, perfino legittimandole talvolta con giustificazioni politiche. È da questa scoperta delle radici profonde della violenza come pertinente alla condizione umana che nasce la tragedia, e per via analogica, la tragedia della corruzione del potere, in un periodo storico dove il razzismo, la pulizia etnica e il genocidio trovano ancora uno spazio in cui attecchire.
Lo spettacolo tende ad esaltare il livello metaforico del testo. Vale a dire un grande affresco visionario, dove anche l’atrocità più efferata, in apparenza inconcepibile, diventa plausibile evidenziandosi nel suo significato primordiale. Tra frastuoni di armi, banchetti, rituali di corte, giuochi feroci, nella visionarietà della grande pittura rinascimentale e barocca, la tensione onirica sul crinale dell’incubo che dovrà sorreggere lo spettacolo, aprirà dei varchi nelle zone segrete dell’inconscio. Il tragico subirà degli smottamenti verso la derisione e il grottesco. Nello svolgersi dell’azione, l’assurdo dell’eccesso, l’orrore che non ha tregua, il ridicolo, il pathos, il grido, il gesto si amalgamano come in una sorta di scenico rituale.
Roberto Guicciardini