IL SENSO DEL DOLORE
di Maurizio de Giovanni
adattamento e regia Claudio Di Palma
con Claudio Di Palma, Chiara Baffi, Antonello Cossia, Francesca De Nicolais, Renato De Simone, Antonio Marfella, Alfonso Postiglione, Lucia Rocco
scene Luigi Ferrigno
costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Gigi Saccomandi
musiche Paolo Coletta
installazioni video Alessandro Papa
assistente alla regia Lucia Rocco
assistente alle scene Fabio Marroncelli
assistente ai costumi Laura Giannisi
direttore di scena Alessandro Amatucci
elettricista Fulvio Mascolo
macchinista Marco Di Napoli
fonico Daniele Piscicelli
sarto Giuseppe Avallone
foto Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
Durata: 1 ora e 40 minuti (spettacolo senza intervallo)
Napoli è considerata genericamente una città superstiziosa. Una città, cioè, in cui la gente crede fortemente al potere di amuleti o di improbabili riti quotidiani e alle fortune di notturne rivelazioni propiziatorie. Napoli è, però, soprattutto città in cui si crede al fatto che i morti “sostanzialmente” persistano. E’ soprattutto questa singolare dottrina, col culto che ne consegue, a fare di Napoli una città superstiziosa. I morti, infatti, ancorché tali, sono ritenuti sempre e comunque superstiti. “Stanno” ancora, insomma, sopravvivono in una qualche forma credibile.
Il commissario Luigi Alfredo Ricciardi è inquieto testimone sensoriale di questa presunta resistenza dei defunti. E lo è non tanto, e non solo, perché lui i morti li vede, in particolare quelli deceduti per cause violente, ma perché è egli stesso il prodotto di una vita solo presunta ancorché credibile.
“… Le spalle di Ricciardi perdono consistenza, come le cose quando diventano ricordi.”
Di questo ci avverte Maurizio De Giovanni concludendo una acuta e raffinata postfazione al “ Senso del dolore “ in cui descrive un suo incontro reale col commissario. L’autore riconsegna, quindi, la sua creatura al senso ed alla forma di una memoria. Non lo restituisce come una sporadica visione, ma come qualcuno da poter ricordare anche se non più esistente. Un morto appunto.
Nell’immaginare, quindi, il luogo scenico da eleggere a possibile crocevia di questo strano miscuglio tra ricordo e morte mi ritrovo a prefigurare la centralità di una pietra tufacea che si proclama quasi sperone funerario e segno resistente di un luogo dei morti ( Il teatro dove nel romanzo viene assassinato un tenore? Napoli stessa ? ). Intorno è il vuoto. Un vuoto scosso da quello stesso vento ( che sulla scena, in forma di musica ostinata, prevede, incoraggia e giudica i fatti ) che continuamente “taglia” il romanzo di De Giovanni e che, con persistenza ossessiva, sembra annunciare l’imminente svaporamento delle creature che lo attraversano. Ricciardi è, così, l’evanescente eppure tormentato officiante di una singolare liturgia della superstizione in cui, però, i superstiti, i sopravvissuti, non sono solo quelli già esistiti, ma anche quelli mai esistiti.