L’AVARO
di Molière
traduzione Cesare Garboli
con Arturo Cirillo (Arpagone), Michelangelo Dalisi (Cleante), Monica Piseddu (Elisa), Luciano Saltarelli (Valerio), Antonella Romano (Mariana), Salvatore Caruso (Anselmo, Saetta, Fildavena), Sabrina Scuccimarra (Frosina), Vincenzo
Nemolato (Mastro Simone, Baccalà, Commissario), Rosario Giglio (Mastro Giacomo)
regia Arturo Cirillo
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Badar Farok, Dario Gessati
musiche Francesco De Melis
regista assistente Roberto Capasso
assistente costumista Gian Maria Sposito
costumi dipinti da Silvia Fantini
direttore di scena Teresa Cibelli
fonico Diego Iacuz
macchinisti Enzo Palmieri, Edoardo Romagnoli
sarta Pina Sorrentino
assistente volontaria Patrizia Monti
stagista Carlotta Tringali
foto di scena Marco Ghidelli
realizzazione scene Retroscena
realizzazione costumi G.P.11
parrucche Audello Mario
calzature Pompei
luci M.E.T.A.
fonica Emmedue
trasporti Autotrasporti Liberato..
Ad Arturo Cirillo, il Teatro Stabile di Napoli affida l’apertura della stagione 2010 -11. Una nuova produzione che vede il regista e attore napoletano ritornare a Molière dopo il felice allestimento de Le intellettuali.
“L’avaro è Arpagone, ma gli altri, cosa sono gli altri? Quale spazio è concesso all’alterità in questa casa corridoio dove tutto è ansiosamente osservato dal suo padre padrone? Tre sono i figli di Arpagone: Cleante, Elisa e la cassetta, ma solo l’ultima è stata “partorita” da lui stesso. Gli altri sono i figli di una madre morta, figli nemici vissuti come sottrattori di giovinezza ed amore, ancor prima che di denari. Mariana, la ragazza che si fa comprare dal vecchio avaro, per intermediazione della ruffiana Frosina, è forse l’ultimo anelito di vitalità, la battaglia finale per dare scacco matto al mondo e alle leggi della natura. Pornografia senile in cui “l’eretto” deve essere solo lui, gli altri li si lascia prigionieri dei loro ruoli, costretti a fare la commedia, mentre lui allude e depista. Solo i servi, non prendendolo sul serio, potrebbero farlo fuori, e non è casuale che sia l’anarchico Saetta a rubargli la cassetta, ma essi però sono pur sempre servi. Insomma gli altri senza Arpagone non si sa bene di cosa possano parlare, di cosa occuparsi. È come l’abitudine, secondo la definizione di Samuel Beckett: il collare che tiene legato il cane al suo vomito. Tutti lo schifano, ma tutti ne sono legati, quasi al guinzaglio, e alla fine, quando l’operetta delle agnizioni li scioglie dal legame, loro, finalmente liberi dove andranno? I vari figli, commissario, ruffiana, futura sposa, cuoco e cocchiere, vecchio nobile napoletano, domestico travestito, di cosa riempiranno ora le loro giornate senza più questo sottrattore di vita? Adesso gli toccherà viverla la vita, diventando Arpagoni loro stessi o magari liberandosi del cappio dell’avere, del possedere, di quello che è oggi il nostro esistere”.
Arturo Cirillo