Anche se ancora non sappiamo quando ci sarà concesso di riaprire i teatri, e fino a quando il tempo davanti a noi sarà condizionato dall’assenza di una cura o di un vaccino che renda inoffensivo l’attacco del virus, continuiamo a parlare molto di teatro. Ne parliamo in modo euforico o disperato, come passione e ragione di vita, oppure nel tono della rivendicazione sindacale o di pena per il baratro che si è spalancato per chi ha perso lavoro e reddito, o ancora nei termini astratti e sproloquianti di chi vede un sud passivo e arreso e un nord attivo e attaccante, o ancora in quelli rituali ed evocativi di una purezza originaria da riconquistare. Insomma, anche se non c’è modo di fare teatro, c’è una gran voglia di parlarne. Probabilmente accade sempre così, nelle circostanze estreme si ha bisogno di parlare di ciò che ci è negato e ci manca. Come si legge nei romanzi di Brancati, dove gli uomini trascorrono il tempo parlando di donne, immaginando rapporti che non hanno alcuna possibilità di consumare, perduti in un vagheggiamento destinato a restare puramente mentale. E’ del tutto comprensibile che sia così. Ma io qui voglio parlare di teatro in termini molto concreti. Voglio dire cose semplici, e che rinviano alla vita di chi fa teatro. Non so divinare se il teatro del futuro sarà diverso da come è stato sino ad ora ( lo sarà se cambiera anche il mondo), so però quello che vorrei accadesse nel teatro che dirigo, il Teatro Nazionale di Napoli. Innanzitutto, vorrei riaprirlo presto al pubblico. Anche a un pubblico ridotto, come quello che inevitabilmente vi entrerebbe se i nostri due edifici all’italiana, templi di una liturgia che fu borghese e popolare, il Mercadante e il San Ferdinando, dovessero conformarsi all’obbligo del distanziamento. Sento opinioni diverse, e molte sono ostili all’idea che si riapra per duecento o per cento persone. Ebbene, io penso che sarebbe un errore tenere chiusi i teatri pubblici, cioè quelli sovvenzionati da risorse dello Stato, regionali o comunali. E sono dunque senz’altro favorevole, sempre che vi sia il via libera delle autorità competenti, alla ripresa delle attività, d’estate in spazi all’aperto, e d’inverno negli spazi istituzionali, a qualunque costo essa si prefiguri, fosse pure per cento persone, un numero che peraltro il grande Jerzy Grotowsky considerava ideale. La ragione è semplice, e sta nella convinzione che durante questa convalescenza che si preannunzia molto lunga, oltre ai libri, alla musica, e al cinema, consumabili anche a casa, non si potrà, e non si dovrà, fare a meno del teatro. Non quello in streaming, o ripreso dalla televisione. Quello che si condivide nello stesso spazio, nello stesso tempo. (A questo proposito chi ha lanciato l’idea di fare teatro per la televisione, dovrebbe capire che questa proposta ha le stesse difficoltà della riapertura dei set cinematografici e televisivi, e si dovrebbe prima trovare un protocollo sanitario condiviso e una qualche forma di assicurazione). Dico questo in nome delle diverse implicazioni che sono all’origine del teatro – ciò che ne fa da sempre lo specchio e la coscienza della collettività – e per un’altra ragione, non meno essenziale, perché il teatro rappresenta oltre al pubblico che riflette anche chi lo fa, e cioè una moltitudine composta da attori, attrici, scenotecnici, registi, macchinisti, elettricisti, costumisti, scenografi, sarte, attrezzisti, truccatori, direttori di scena. Un mondo di individui che lavorano per ottenere un risultato comune, ciascuno con un ruolo ben definito.  Un piccolo mondo che in Italia conta trecento mila persone. Lo stesso piccolo mondo evocato da Oscar, direttore del teatro in una memorabile sequenza di Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. E’ vero, non sempre questo piccolo mondo produce spettacoli che corrispondono all’idea più rigorosa e vitale del teatro. A volte capita di imbattersi in spettacoli mortiferi e inerti, o tronfi e arroganti, ma questo piccolo mondo ha una sua dignità che va al di là delle delusioni offerte dalle sue singole prove. E qui, in questa crisi pandemica, è in ballo proprio questa dignità. Se i decreti e i comitati tecnici confermeranno che non si possono fare spettacoli con compagnie composte da dieci persone, faremo spettacoli con pochi attori, o con tre attori, o con due, o con uno solo, e cercheremo comunque di essere all’altezza del teatro che amiamo, mantenendo in vita un tessuto di saperi e competenze che altrimenti rischierebbe di disperdersi. Non c’è nessuna certezza che uno spettacolo con dieci attori sia più coinvolgente e necessario di uno con un solo attore. Potrei fare molti esempi che smontano questo pregiudizio. In ogni caso non ci sono alternative, dovremo attenerci alle disposizioni che saranno rese pubbliche dal governo nei prossimi giorni. E dovremo farlo con la nostra creatività più pura e affilata. Abbiamo davanti una convalescenza piena di incognite, un tempo che nel limitare le nostre possibilità sociali eccita il nostro desiderio di inventare forme e poetiche nuove, abbandonando il teatro della pompa  e della vanità. Nello stesso momento in cui la pandemia ci pone davanti alla nostra limitatezza e fragilità, e in cui ci ritroviamo spodestati della nostra arroganza il teatro può lanciare a  se stesso, in forma austera, una nuova sfida. E se non ci dovesse essere concesso di aprire al pubblico, studieremo con le autorità competenti modi e forme in cui fare le prove degli spettacoli, e aprire un cantiere della drammaturgia e dell’arte drammatica che tracci la strada del teatro che vorremo mostrare al pubblico quando la scienza avrà finalmente sconfitto il virus. Solo così terremo fede all’idea cardine che ha reso vivo il teatro nel tempo, anche nei periodi bui della peste, la stessa che ne ha fatto il paradigma della nostra identità più sensibile e mutevole. Come diceva Camus, quando non c’è più speranza bisogna inventarla.

 Roberto Andò

Direttore Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale