A partire dall’iconico Casa di bambola di Henrik Ibsen, Filippo Dini imprime una lettura che si discosta dal repertorio che ha relegato la protagonista Nora a emblema dello scontro di genere.
Henrik Ibsen terminò di scrivere Casa di bambola ad Amalfi nel 1879. Da subito, dalla sua prima apparizione sulle scene, questo testo scatenò i più violenti conflitti, in ogni ordine sociale, dagli intellettuali, ai teatranti, agli scrittori, alle femministe, ai politici, generando accesissime discussioni intorno ai più disparati argomenti: dalla condizione della donna nella società alle contraddizioni del legame matrimoniale e alla personale “fedeltà alla vita”, ovvero il
raggiungimento della propria compiutezza nella società, al di fuori dei vincoli che la stessa ci impone. Ma quale fu davvero lo scandalo? Cosa riesce a turbare ancora oggi le nostre coscienze? Forse la risolutezza di Nora? La sua decisione di lasciare la sua famiglia e quindi anche i suoi figli? Forse. Certamente, come dice Torvald, la moralità di Nora, in questo atto, viene ad essere seriamente compromessa, ma Ibsen ci lascia intendere che il suo abbandono non sarà definitivo, ovvero prima o poi tornerà ad essere madre, e forse, anche se su questo punto pare essere categorica, addirittura moglie. Allora in cosa, in quale remoto antro della nostra coscienza, il nostro poeta riesce a scardinare le certezze, i pilastri secolari del nostro vivere civile? O meglio, quali sono i dubbi e le domande e le paure più segrete, alle quali l’uomo si è rifiutato di dare risposta nei secoli, che Casa di bambola riesce a risvegliare con tanta insopportabile disumanità?